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dal nastro sottile, ma i colori che trasparivano erano gli stessi che avevo in testa. Ascoltavo le
piccole oscillazioni di volume provocate dai suoi movimenti, i suoni della sua forchetta sul piatto:
me la rivedevo davanti, come se insieme alle parole il registratore avesse raccolto anche ogni
piccolo gesto e sguardo. Mi sono tolto i vestiti, mi sono infilato a letto. Caterina dormiva sulla
pancia, con le braccia strette intorno al cuscino, un ginocchio alzato come se stesse
arrampicandosi su una parete orizzontale. Ho spento la luce, le sono rimasto immobile di fianco;
poi ho avventurato una mano a carezzarle la schiena e il sedere, attento a non svegliarla. Le sono
scivolato più vicino; ho scorso le dita dal basso verso l'alto tra le sue cosce tiepide, sotto la
maglietta di cotone che usava come camicia da notte. Cercavo di esercitare la minima pressione
possibile con i polpastrelli, concentrato sulle superfici che percorrevano; ma lei si è girata su un
fianco, in tono lamentoso ha detto: «Sto dormendo, Roberto». Così mi sono lasciato ricadere sulla
schiena, a respirare con le mani dietro la testa. Ero troppo irrequieto per dormire; un attimo dopo
l'ho scossa per una spalla, le ho detto: «Lo spettacolo era insopportabile La regia e la musica e gli
attori erano da spararsi. Dopo ho dovuto andare a una festa, ho conosciuto anche Marco
Polidori».
Caterina nel sonno ha mormorato: «Quel maniaco sessuale»; e si è girata dall'altra parte.
Lunedì mattina l'aria di Milano era così fredda e velenosa che ho provato quasi sollievo a
infilarmi nel palazzo della redazione con il suo microclima artificiale, impermeabile a qualunque
cambiamento di tempo e di stagione. Le mie colleghe e i miei colleghi avevano la solita aria
intontita da inizio settimana; il rumore di fondo del grande alveare elettronico non aveva ancora
raggiunto la sua frequenza piena. Ho acceso il monitor sul mio tavolo per sembrare occupato e ho
preso il nuovo numero di Prospettiva da un tavolo vicino, mi sono messo a sfogliarlo. Di solito non
rileggevo mai i miei pezzi pubblicati, ma avevo voglia di rivedere l'intervista a Maria Blini: rivedere
lei, più che altro. Ho cercato tra le pubblicità di orologi da dieci milioni e di whisky single malt
invecchiati vent'anni e di penne stilografiche al platino e carbonio; tra i sondaggi pseudosociologici
corredati da foto di modelle nude, i pezzi internazionali copiati in fretta da Newsweet o
dall'Economist o da Scientific American, le inchieste traboccanti di mezze informazioni sui servizi
segreti deviati e sulle stragi mai chiarite e sulle truffe di stato e di partito, le analisi costruite intorno
alle battute dei politici e alle loro dichiarazioni ritrattate e ai loro avvertimenti cifrati.
Alla fine l'ho trovata: appoggiata sorridente a un muretto di pietra, con addosso solo una
camicia da uomo sbottonata all'altezza del seno e troppo corta per coprirle le gambe. Era una foto
d'estate; i suoi capelli biondi erano più lunghi e schiariti ancora dal sole, la sua pelle più dorata di
quando l'avevo osservata da vicino tre sere prima.
La mia intervista già corta era tagliata di un buon terzo per farla rientrare in un riquadro nel
pezzo di Angelo Zarfi: le mie osservazioni su di lei ridotte a pochi aggettivi-etichetta, il tono
irregolare delle sue risposte standardizzato a forza. Ero abituato a questo genere di censura
tecnica o stilistica, ma l'idea che Maria potesse considerarmene responsabile mi riempiva di
rabbia e di mortificazione. Guardavo la sua foto di cinque centimetri e mezzo per otto sotto il titolo
idiota. Ed è subito Maria, e avrei voluto avere un altro ruolo nella vita. Tevigati si è affacciato da
sopra il mio monitor, mi ha detto: «Contempli i tuoi capolavori?». Ho cercato uno sguardo che
potesse servirgli da risposta e far trasparire almeno una piccola parte del desiderio che avevo di
prenderlo per il collo.
Lui ha detto: «Se devi sbarellare così appena ti mando a fare due domande a una bella figa,
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